L’installazione White Polis è composta da una lastra di ferro su cui sono collocati calchi in gesso di involucri industriali di polistirolo assemblati e da più scatti fotografici posizionati a parete.
Il progetto è una riflessione sull’utilizzo odierno del colore bianco nei luoghi.
Il bianco è sempre stato considerato un colore sacro. Come dice Roth “le città bianche sono un miraggio estetico”.
Pensiamo ai luoghi interamente dipinti di bianco… sono luoghi spogli, ridotti all’osso, dove solo il necessario è presente nella sua umiltà. Li avvolge un’atmosfera sospesa. Il bianco porta con sé la sua ombra, la sua caducità. La sua polvere.
È un colore, non è un neutro.
Il bianco di oggi ha perso la sua sacralità: è sovraesposto e va a creare una luce diffusa, algida, senza ombre. È divenuto un colore universalizzato, sinonimo di incolore, falsamente imparziale e rassicurante.
Da elemento misterioso che decideva le luci e le ombre, si è trasformato in una serie infinita di pareti, bianche appunto, prive di memoria. Una volta i muri erano spessi, con delle imperfezioni, con delle increspature leggere su cui negli anni si depositava la polvere. Quei rigonfiamenti delle superfici dovuti all’umidità creavano delle ombre e dei segni, come il riaffiorare di vecchi ricordi.
Oggi i muri sono lisci, dritti e perfetti, ma innaturali, poco umani.
White polis è un insieme di frammenti diversi che ritornano alla luce e ricominciano a dialogare tra di loro. White polis è la nostalgia per quel bianco sacro, per quelle pareti imperfette, per i giochi netti di ombra e luce, per la polvere e l’intonaco steso male.
Mostra collettiva, partecipazione a “Lavorare è un’arte”, Premio Opera Fabbrica CGIL, Chiostri della Biblioteca Oriani di Ravenna, Maggio 2011.
White Polis
The installation White Polis is composed of an iron plate on which industrial packaging casts made of polystyrene are placed, as well as of photographic snapshots placed on the wall.
The project investigates the use of the colour white with concern to places.
The white has always been considered as a sacred colour. As Roth says, “white cities are an aesthetic mirage”. We can think of all white painted places …: they are bare places, brought down to the minimum, where only the very necessary things find space in their humility. An uncertain atmosphere enshrouds them. The “white” takes with itself its own shadow, its transience, its own dust. It is a proper colour, not just a neutral one.
Nowadays the “white” has lost its sacrality: it is over-exposed, creating a cold and scattered light, deprived of shadows. The ‘white’ has become the universal colour, synonymous with a non-colour, falsely impartial and reassuring. From being the mysterious element which distinguished the light from the darkness, it has transformed into a infinite series of white walls, deprived of memories.
Once upon a time, walls were thick, often fill with imperfections and light pleatings on which dust would deposit. Damp swellings of the surfaces due to the humidity would create shadows and scratches, like the emergence of old memories. Nowadays, the walls are smooth and straight, but not natural, little human.
White polis is a mix of diverse fragments coming out from the darkness, willing to interact one with the other. White polis is the nostalgia for that sacred White, for those imperfect walls, for the sharp contrast between dark and light, for the dust and the badly spread plaster.
Collective Exhibition ““Lavorare è un’arte”, Premio Opera Fabbrica CGIL, Chiostri of the Biblioteca Oriani, Ravenna, May 2011
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