Qualche tempo fa ho partecipato alla Silent Disco, un particolare tipo di evento musicale durante il quale i partecipanti ballano ascoltando la musica attraverso cuffie o auricolari. Invece di utilizzare un sistema di altoparlanti, la musica viene trasmessa tramite un trasmettitore radio: il segnale viene raccolto dalle cuffie wireless.
Dal punto di vista del rispetto della quiete pubblica mi è sembrata un’idea geniale, ma per quanto riguarda l’aspetto social, mi sono sentita terribilmente isolata.
La cosa peggiore è togliersi le cuffie quando tutti gli altri le indossano.
La gente balla come pazza nel silenzio, totalmente assorbita e invasata. Invano, cerchi di attirare l’ attenzione di persone intorno a te che sono immerse in un’ altra dimensione.
Le cuffie della Silent Disco mi hanno rimandato a tutti gli apparecchi di cui siamo forniti che ormai sono diventati prolungamenti del nostro corpo. Mi sto riferendo per esempio ai nostri smartphone, proprio quelli di cui non riusciremmo per nulla al mondo a farne a meno, quelli che se ti lasciano a piedi per un giorno ti fanno sentire perso e fuori dal mondo!
Tutta questa tecnologia pur aiutandoci e facilitandoci la vita ci sta allontanando dalla carnalità, dalla spontaneità di situazioni reali che non riusciamo più neanche ad immaginare tanto sono diventate assurde al nostro DNA.
Per quanto riguarda la mia esperienza, queste sensazioni rimangono confinate in un angolo della memoria sottoforma di ricordi a volte sbiaditi a volte più vividi. Sono colori sapori e odori della mia adolescenza, quando ancora non ero assorbita dai nuovi contesti in cui mi muovo.
Ciò che osservo oggi è che troppa tecnologia paradossalmente ci impedisce di comunicare veramente o ci disabitua a farlo.
Mi riferisco a quel tipo di dialogo faccia a faccia, uno scambio vero fatto di emozioni, parole, riavvicinamenti e allontanamenti fisici.
Quando trovo rifugio nei miei ricordi, mi manca spesso l’attesa che provavo nel vivere i momenti, oggi così controllati e regolati dal dove siamo, con chi siamo in una data specifica alla tal’ora: vedere la propria e altrui quotidianità continuamente esposta sui social non ci fa desiderare di scoprire qualcosa di più, di immaginare cosa stia facendo una persona, di chiedere, di esporsi, di attendere che arrivi il giorno di un appuntamento.
Nel mentre hai già visto tutto sul social, cos’ha fatto, dove è stata, con chi: cos’hai da scoprire, se non condividere una noiosa conversazione senza pizzico di sale e novità?
Ma è proprio qui lo sbaglio! C’è tutto un mondo insondato e affascinante dietro ai milioni di immagini e post condivisi.
Il punto è che la troppa condivisione virtuale ci abitua a non fare più domande. Preferiamo essere un esercito di spioni che pretendono di sapere, ma in realtà non sanno un bel niente. Perché la maggior parte di ciò che postiamo è un centesimo di quello che proviamo e viviamo.
Sui social network, la gente sembra avere per la maggior parte del tempo momenti eclatanti: ride, si diverte, appare in ordine e perfetta.
I profili sono una sfilata di immagini che raccontano vite di successo a cui non manca nulla.
Eppure sono false e irreali. Non si vede e non si sente l’odore dei problemi, della fatica, dei disagi personali, della tristezza, della malattia, dei sacrifici, delle lacrime, del sudore, dell’umanità, della noia, dell’insuccesso, dell’esclusione, della debolezza fisica e mentale. Tutte cose che ci accumunano, ma che chiudiamo in un cassetto per far vedere agli altri che siamo felici e vincenti.
Parlando di queste cose mi viene in mente la risata finta delle opere dell’artista cinese Yue Minjun, legato al movimento del realismo cinico. L’artista tende a riprodurre l’immagine di se stesso in serie in svariate situazioni all’interno di paesaggi onirici. E’ un autoritratto terribilmente stridente. Mi è rimasto impresso il suo volto deformato, il sorriso falso e stereotipato che sembra voler prendere per il culo chi osserva. Ecco, sui social, questa risata finta è la protagonista indiscussa sulla stragrande maggioranza dei volti dai tratti sempre diversi, ma paradossalmente uguali.
In altre occasioni, quando sono in treno o sulla metropolitana per esempio, tutti sono concentrati sul loro pc, sul loro tablet, o smartphone. Ed io sono una di loro. Faccio le stesse cose. Ma non me ne accorgo. Lo faccio in automatico. Quando però mi capita di non aver nulla tra le mani o di voler esserci con ostinazione nel momento presente, mi sento isolata pur essendo in mezzo alla moltitudine.
E badate bene, l’isolamento è molto diverso dalla solitudine! Molto spesso la solitudine è uno stato positivo, in quanto fa sperimentare una conoscenza più profonda di se stessi!
L’isolamento invece è una totale condizione di incomunicabilità, di indifferenza e non curanza, che deriva da un condizionamento esterno.
Il sentirsi isolati è il mood privilegiato di chi abita questa realtà, fatta per lo più di finzione che lucida e rende splendidi e di poca imperfezione e umanità.
Purtroppo questo mondo ci sta abituando, giorno per giorno, anno per anno, a dimenticarci di avere un corpo.
Ci sta costringendo a vivere sempre insieme, ma soli!
“La robotica e la connettività sono complementari: ci conducono inesorabilmente al ritiro relazionale. Con i robot sociali siamo soli, ma ci illudiamo di essere “insieme”. Grazie alle connessioni rese possibili dalla tecnologia, siamo “insieme”, ma questa forma di esistenza è così vuota, così limitata che siamo di fatto soli. Le nostre tecnologie ci spingono a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto a cui ‘accedere’, ma solo a quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti”.
Sherry Turkle, Insieme ma soli