Da Di noi tre di Andrea De Carlo.
“Ti sei stufato da morire oggi, eh?”
“Ma no.” Ho detto io in tono di difesa.
“Ho visto la faccia che avevi.” Ha detto Misia. “Il grande Zzzz. Non c’eri!”
Volevo risponderle che non era vero, ma con lei avevo una specie di compulsione a dire la verità, per scomoda che fosse. Dipendeva dal suo modo di essere e di guardarmi: solo l’idea di girare intorno alle cose mi sembrava imbarazzante.
Le ho detto “E’ che questo è il film tuo e di Marco, in realtà. (…) Io non ho niente di specifico da farci. Niente. La maggior parte del tempo sto lì come un facchino in attesa e mi sento uno stupido.”
“Si lo so.”
Sono rimasto zitto, senso di esclusione freddo e fondo come una corrente del mare artico. Una serie di immagini di Misia e Marco insieme mi sono passate attraverso la testa: loro due visti da angoli diversi che si parlavano fitto in un angolo del grande soggiorno vuoto, vicini e complici come due innamorati, tutti sguardi e piccoli movimenti delle labbra e delle mani, vibrazioni che nessun altro riusciva a decifrare. Mi provocavano un effetto intollerabile; avrei potuto lasciare il volante e accelerare alla cieca, mandare la cinquecento a sbattere dove capitava.
Misia ha detto: “Però è un lavoro collettivo. C’è una soddisfazione anche nell’essere parte di un insieme, no?”
“Non in questo caso.” Ho detto io. “Perché non capisco niente di tutto questo e mi mortifica stare lì a ciondolare con una lampada in mano mentre tu e Marco vi lasciate travolgere dal vento della creatività e tutti gli altri si divertono in modo così straordinario. (…)”
Misia ha preso respiro e si è girata verso di me, con lo stesso sguardo di quando Marco l’aveva sfidata a fare la protagonista del suo film. Ha detto: “I disegni che fai sono fantastici, Livio. Perché non metti lì la tua energia, invece di sentirti un facchino degli altri?”
E non mi aspettavo neanche questa sincerità carica di affetto che mi spingeva verso una riva di responsabilità definite: le ho detto “In che senso?”
“Nel senso di farlo.” Ha detto Misia. “Disegnare e lasciar perdere tutto il resto. Lasciar perdere il film e gli studi di storia che non vanno avanti.”
“E Marco?” Le ho detto io, come un millantatore spinto verso un trampolino da cui non aveva davvero intenzione di tuffarsi.
“Marco lo capirà.” Ha detto Misia. “Se gli spieghi che hai bisogno di farlo. (…)”
“Ma non è un lavoro, disegnare.” Ho detto, con la voce che mi risuonava troppo forte e spaventata nell’abitacolo di latta curva. “Non è una cosa realistica!”
“Non pensarci tu.” Ha detto Misia, già spazientita della mia resistenza. “Pensa a disegnare. E non ti confinare in quelle miniature, madonna. Fai dei fogli grandi, fai delle tele, usa i colori. Vai. Non avere paura.”
“Non ho paura.” Le ho detto, pieno di rammarico per essermi appena tagliato fuori dal film.
“Meno male. Guarda che ventitré anni non sono così pochi, per fare quello che hai voglia di fare.”
È vero che ho sempre avuto una natura influenzabile, ma non mi è mai capitato di incontrare nessuno come Misia Mistrani a farmi vedere in modo così semplice e improvviso l’unica strada adatta ai miei piedi pigri o impazienti del momento.
Tardi di notte e con tutta la stanchezza e la confusione del film di Marco nella testa, appena in casa ho tirato fuori un foglio di carta di un metro e mezzo per un metro e matite e pennelli, ho messo Let It Bleed degli Stones sullo stereo e ho cominciato a dipingere.
Immagine: Robert Doisneau , Pont d’Iéna, 1945